Il Madagascar, meravigliosa isola del continente nero, conosciuta da tutti come un paradiso tropicale è sogno di molti turisti grazie dall’omonimo cartone animato della DreamWorks Animation. Zebre, leoni, elefanti, giraffe in libertà quasi fanno desiderare di abitare in Africa.
Non ci rendiamo conto di quanto sia vasta questa isola. Lunga oltre 1500 km, il Madagascar è la quarta isola più grande del mondo. L’isola che si affaccia sull’oceano indiano, a seguito del periodo coloniale, ha una forte influenza francese, sia dal punto di vista linguistico, sia da quello economico.

Bambini dell'isola di Nosy Be

Bambini dell’isola di Nosy Be

Sebbene immagini e racconti di chi ha visitato il Madagascar possano alimentare la nostra immaginazione fatta di palme, sole e spiaggia, c’è un lato dell’Isola che non sempre si conosce. Quello che c’è dietro i resort, il lusso sfrenato in mezzo alla natura o l’occhiatina organizzata alla povertà che tutti fa impallidire – sbiancare (!)- prima di tornare a scaricare le fotografie sui propri computer, be’ quello che c’è dietro non sempre si conosce.
Accanto al volto del Madagascar occidentalizzato, fatto di cioccolata, spezie e materiale tessile c’è un’altra realtà, fatta di realtà. Popolazioni intere che secondo l’occhio bianco sono state aiutate dal progresso, continuano a soffrire una condizione di povertà. Conosciamo bene i luoghi africani, ma le genti?

LA STORIA

La famiglia malgascia è in genere costituita da madre, padre e tre (quattro-cinque) ‘marmocchietti’ di una bellezza imbarazzante” racconta Giulia Russo, biologa marina che ha vissuto a Nosy Be, una della isole a nord del Madagascar, per tre mesi lavorando in un diving center gestito da italiani.
Le famiglie sono riunite in piccoli villaggi di capanne di palma del viaggiatore e tetti di rami di banani. Spesso i nuclei familiari sono imparentati tra di loro. La sopravvivenza del villaggio dipende soprattutto dalle donne, visto che gli uomini sono spesso lontani da casa per lavoro. Le donne per procurare cibo alla numerosa prole si improvvisano pescatori riuscendo a rimediare qualche granchio, polpi o piccoli pesci. Altre mamme si dedicano al cucito vendendo le loro tovaglie coloratissime per pochi euro, ma che per loro è già un piccolo tesoretto”.
Il cibo diventa un bene non solo necessario, ma molto prezioso: “Mangiano molti frutti dei numerosi alberi che crescono spontanei e ovviamente il riso, del quale il Madagascar è uno dei primi consumatori al mondo. I più fortunati possono permettersi pezzi di zebù, la mucca locale acquistabile nei mercati dei villaggi più grandi. Il mercato è un posto dove odori e colori si fondono. Si può acquistare praticamente di tutto: dalla frutta al riso dalla carne – con qualche mosca malcapitata – al pesce e poi ancora vestiti, pentolame ma soprattutto spezie”.

In una realtà come quella turistica in cui sono stati proiettati, i malgasci hanno imparato come poter sopravvivere facendo leva su i bianchi, nella loro lingua i vazha.Per muoversi i malgasci andavano a piedi o avevano una bicicletta. Oppure usavano i taxi collettivi che, per pochi centesimi, li accompagnavano in gruppi da 7, 8 addirittura 9 persone, da un villaggio all’altro. Questi prezzi però erano solo ed esclusivamente per gli autoctoni, i vazha pagavano la cifra pattuita ma rapportata all’euro: in compenso avevano il taxi tutto per loro”.
Per i malgasci è quasi impossibile poter uscire dal proprio Paese e soffrono della condizione di non poter essere liberi né dentro né fuori i loro confini: “Lo Stato ha imposto alla popolazione una legge secondo la quale per uscire dal Madagascar, il malgascio deve avere un conto corrente con almeno duemila euro. Una cifra astronomia se si pensa che lo stipendio per un africano si aggira attorno a 40-60 euro. E così molto spesso loro cercano il matrimonio con un bianco per poter essere liberi di muoversi”.
Andare in un Paese come il Madagascar non essendo un turista, fa aprire gli occhi su quella che è la vita quotidiana di un popolo che, pur vivendo in un posto giudicato magico dai più, non possiede niente che sia materialmente di valore.

Giulia e Sacché

Giulia e Sacché

“Impossibile, poi, non provare tenerezza per i più piccoli – dice Giulia – Non potrò mai dimenticare Sacchè, un bambino che è entrato nel mio cuore quando ero a Nosy Be. Sacchè era – ormai sarà diventato grande, almeno secondo la loro concezione di adulto – è dell’etnia dei Vezo, ossia genti proveniente dal sud dell’isola. La maggior parte di loro arrivano al nord per fare il lavoro di guardiani alle attività dei bianchi. Un giorno vidi Sacchè che giocava con una fionda. La fionda è appunto l’arma utilizzata dai guardiani. Data la mancanza di soldi e risorse, probabilmente il suo destino era quello di diventare un guardiano come suo padre. Ricordo che quando ero lì mi dispiacevo del fatto che Sacché non potesse studiare o avere un futuro migliore. Ma forse era un ragionamento da persona che vive nel mondo così detto civilizzato”.

Non si può spiegare cosa sia la povertà se non la si è vista con i propri occhi. Quel che racconta Giulia è una realtà fatta di uomini, donne e bambini che non hanno niente: “Molti villaggi soprattutto i più piccoli e sperduti non hanno acqua, corrente e luce. Loro, però, avevano il cielo, e che cielo! Quel cielo vale molto più di mille lampadine”.