Tra le istituzioni che funzionano a singhiozzi in Italia compare senza ombra di dubbio l’Università. A dirlo non sono solo classifiche mondiali, europee o italiane stesse, ma sono in primis coloro a cui il servizio è destinato: gli studenti. Un punto di vista, quello degli universitari, che spesso viene ignorato o sottovalutato, ma che potrebbe diventare uno strumento di crescita e di uniFormazione alle altre realtà a noi più o meno vicine.
L’Università è da sempre considerata il gradino più alto dell’istruzione. Grazie all’Alma Mater Studiorum di Bologna fondata nel 1088, l’Italia ottiene il primato tra le più antiche Università d’Europa, seconda nel mondo solo a quella del Marocco.
Nonostante una tradizione scolastica affinata – e raffinata – negli anni, oggi gli Atenei Italiani sembrerebbero avere diversi nei, a causa dei quali vengono posizionati nei gradini più bassi delle classifiche nei confronti con le più giovani, ma evidentemente più aggiornate università straniere.
A valutare l’efficienza degli istituti di istruzione terziaria del mondo è l’Università Jiao Tong di Shanghai che, con la collaborazione con QS World University Rankings e la Times Higher Education World University Rankings, ogni anno redige la classifica delle migliori università: la Academic Ranking of World Universities.
Al top della classifica c’è l’Università di Harvard, mentre a portare la bandiera delle università europee si trova, al quinto posto, Cambridge. Bisogna scendere tra le posizioni 151-200 per trovare gli Atenei Italiani. Prima è la Sapienza di Roma. Analizzando l’andamento che l’Università della capitale ha avuto negli ultimi anni – dal 2003 ad oggi – è possibile notare un sensibile calo di qualità.
E’ anche vero, per dare colpo al cerchio e uno alla botte, che per l’Italia è difficile competere con territori molto più vasti e molto più attrattivi come quelli americani o quelli inglesi. Quindi una tale posizione dovrebbe stimolare in ogni caso un moto d’orgoglio.
LA VOCE DEGLI STUDENTI
Lasciando il compito di analizzare le statistiche e trovare le motivazioni di tali posizioni a chi se ne intende, alcune spiegazioni possono provare a darle gli studenti, primi sostenitori – dal punto di vista della qualità, ma anche economico – e biglietti da visita dell’istruzione italiana.
“Se dovessi stilare una lista di ciò che non va e che potrebbe essere migliorato – dice Valentina Della Valle, studentessa di Laurea Magistrale in Lingue Straniere per l’impresa e la Cooperazione Internazionale all’università di Pescara – partirei dalla disorganizzazione che spesso non facilita il lavoro né degli studenti, né dei professori. Per entrare nello specifico della parte che riguarda l’insegnamento, invece, mi verrebbe da dire di getto che pecchiamo nel fare poca pratica, nell’avere poca interattività nelle lezioni e scarse possibilità di fare progetti così come scarsi sono i rapporti con le aziende. Con questo metodo, ad esempio, si potrebbe creare una rete di contatti utili ai futuri laureati per all’inserimento nel mondo del lavoro. A differenza delle università Americane il nostro approccio è molto e, inutilmente, teorico. Noi italiani, inoltre, studiamo per un periodo più lungo ed entriamo più tardi nel mondo del lavoro”.
“Ad abbassare il livello di qualità nell’Università Italiana – commenta Emanuela Stoppoloni, studentessa della Laurea Magistrale in Lettere Moderne all’Università di Siena – è stata l’introduzione del 3+2 (divisione in Laurea Triennale e Laurea Magistrale ndr). A rendere debole la crescita degli Atenei è, poi, la poca passione e attenzione dei professori verso gli studenti (e quindi esami troppo facili o facilitati) e infine la troppa quantità e poca qualità nei corsi”.
Niente pratica, niente rapporti con l’esterno, studio quantitativamente alto, ma qualitativamente scarso. Nonché l’introduzione dell’istruzione a “step” e un interesse poco reale dai pilastri dell’università: i professori.
Dello stesso avviso, ma con qualche spunto differente è anche Giulia Verdenelli, studentessa di Laurea Triennale in Lettere Moderne all’Università di Macerata: “Senz’altro alcuni docenti non svolgono il proprio mestiere per passione e questo non è un lavoro d’ufficio. Quindi a farne le spese è tutto il sistema universitario. Dal punto di vista di uno studente, però, aggiungerei anche che parte di responsabilità è dello studente stesso. L’arrivismo e la fretta di ottenere il titolo inquinano i rapporti sani tra docente-laureando. L’università, invece, dovrebbe essere fucina di idee, scambi culturali, anche scontri su tesi avverse, se necessario. Ad essere peggiorato è proprio il modo di vedere questa grande possibilità che abbiamo di poter cambiare il modo di vedere il mondo. Gli studenti universitari dovrebbero essere parte attiva della crescita di questo sistema e non solo atti all’apprendimento passivo”.