Oggigiorno fa molto riflettere il modo in cui la stampa e i mass media analizzano il recente fenomeno migratorio.
Chi possiede un profilo sui social sa bene che non sarà mai risparmiato da operazioni denigratorie e di rabbioso incitamento al razzismo e all’odio. Queste si prestano, infatti, alle campagne mediatiche che mirano a diffondere notizie su mostri ed uomini neri proprio per screditarli e per categorizzarli come “diversi”. Quando tali notizie poi girano sul web, seguono il sistema di moltiplicazione virale dei link condivisi senza che neanche, a volte, li si legga o verifichi.
I naviganti si fidano di quello che trovano su internet specie se opportunamente confezionato e dalle sembianze giornalistiche. La rete, luogo della virtualità, aleatorio ed incerto, è il posto in cui verità e bugia vanno a braccetto e in cui tutti ci sentiamo e crediamo liberi: liberi opinionisti, liberi giudici delle azioni altrui. Se poi questo “altrui dominio” si allontana per valori, norme e costumi da noi, arrivare alla critica culturale e al linciaggio razzista è- come purtroppo continuiamo a ravvisare nell’attualità- un passo, semplice per giunta. È questo lo schema basilare della formazione di luoghi comuni, leggende metropolitane e riesumazioni di miti; esso genera mostri, ottenebra la ragione e mistifica la realtà al fine di demistificarla a proprio piacimento.
Contro la retorica del corpo estraneo alla Nazione, un corpo che usa i beni e le tasse degli italiani e ruba le loro case, l’immigrazione rappresenta il problema cardine di questo secolo. Essa è opportunità solo se il modello di inclusione vive lontano dalle tensioni politiche e mediatiche e, soprattutto, dagli sciacalli in cerca di business del dolore.
Ed infatti, malgrado tutto il progresso vantato, la descrizione dei migranti è sottesa a parametri classificatori che legano lo straniero a realtà inferiori, perché estranee, e pericolose perché sconosciute. Pare che l’insidioso mito dell’esotico serpeggi ancora. Il messaggio di molti mass media ha l’effetto di confermare la condizione di disparità tra soggetti della comunità e soggetti extracomunitari da emarginare, come se non bastassero già i ghetti in cui vivono.
Il fenomeno migratorio è presentato attraverso il linguaggio mediatico che abbonda in stereotipi, salvo poi riparare in concetti politically correct e repertori di rassicurazioni su questioni difficilmente risolvibili. L’attenzione è catalizzata da un tipo di linguaggio definito “idraulico” poiché evocativo della “invasione” via mare. L’acqua è un elemento fortemente descrittivo: denota qualcosa da incanalare, purificare ed assorbire ma implica anche la sua capacità di imputridire, infiltrarsi e di essere fonte di contagio.
- “in arrivo marea di immigrati”
- “ondate massicce”,
- “chiudiamo il rubinetto”
- “svuotiamo la vasca”
È arduo stabilire quali siano significati ed implicazioni veicolati dai migranti, molto spesso ridotti al silenzio. La loro voce, insieme alla loro identità, è strappata da viaggi strazianti. Nel descrivere i naufragi riecheggia il silenzio assordante dei vivi e la retorica flemmatica sulle morti. Esseri umani ingoiati dal mare che non hanno nome e superstiti di cui arrivano solo le immagini e, per questo, ridotti a oggetto di narrazione, mai soggetto. Tant’è che sembra non ci siano superstiti, di rado intervistati, né morti di cui familiari o amici possano parlarci.
Il migrante è imprigionato e soggiogato da una provvisorietà che perdura; lo spazio sociale gli è due volte negato: in uscita dall’originario ed in entrata in quello di accoglienza; non è né immigrato né emigrato ma vive sospeso in un limbo, in una condizione di doppia assenza, indi di ambigua moralità.