Paese di poeti, santi e navigatori, possiede la maggior parte dei siti riconosciuti dall’Unesco come patrimonio dell’umanità e la sua cucina, oltre che i suoi paesaggi, è apprezzata in tutto il mondo. Parliamo ovviamente dell’Italia, nazione all’avanguardia in campo culturale, esportatrice di grande ricchezza sotto il profilo artistico, musicale, letterario, storico. In campo sociale e di diritti garantiti alla persona, così come per ciò che riguarda la corruzione e la pressione fiscale, non siamo da meno: l’Italia è l’ultimo Paese del cosiddetto “primo mondo” dove ancora non viene applicata la parità dei suoi cittadini dinnanzi alla legge. Nonostante questa scritta campeggi nelle aule dei tribunali e sia il valore fondante della nostra Costituzione, viene difficilmente applicata a tutti i casi, specialmente per quanto concerne i diritti umani delle minoranze, che si sa, alle maggioranze non piacciono.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’  compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 3 della Costituzione

La minoranza di cui si sta parlando in questi giorni, con un dibattito che accende il Parlamento e di conseguenza la nazione intera, riguarda i diritti delle coppie non sposate. Battezzate prima come PACS, Patto civile di solidarietà, e poi come DICO, insieme dei Diritti civili dei Conviventi, le unioni civili interessano una grande fetta di popolazione italiana, privata della possibilità di essere riconosciuta come tale dai governi che si sono succeduti dalla nascita della Repubblica.

E come non citare l’importanza della Chiesa in questo disegno? Dopo ben cinquant’anni di governo di un partito chiamato Democrazia Cristiana, che a suo tempo tentò di ostacolare l’approvazione delle leggi sul divorzio (1970) e sull’aborto (1978), e dopo venti anni di governo Berlusconi, in cui un premier dalla vita dissoluta tentava ridicolmente di mantenere lo status quo conservatore cui anche la Chiesa ambiva e ambisce, oggi ci ritroviamo di fronte a una nuova battaglia civile, condannata in toto dalle personalità ecclesiastiche – a loro tempo coinvolte in scandali sessuali ed economici, rapidamente accantonati – all’interno di un Paese autodichiaratosi laico.

La questione politica

In questa girandola di ipocrisie nascoste sotto la dicitura di “tradizioni”, l’Italia sta vivendo un momento politicamente delicato. Le larghe intese, che riuniscono sotto una bandiera i principali partiti di centrosinistra e centrodestra, lasciano la strada al trionfo degli estremismi come uniche alternative ai “centrismi”, alle vie di mezzo, al compromesso. E se la sinistra, da sempre troppo purista per cercare un accordo interno, soccombe, la destra del partito Lega Nord, culturalmente legata alle tradizioni di una sola parte del Paese, viene elevata come portatrice dei valori conservatori di tutt’Italia; e la nazione, incapace di avere carta bianca per una rivoluzione responsabile, si affida un’altra volta alla personalità eminente, al capo carismatico, al populismo estremo, a cui delegare qualunque battaglia politica pur di non doversene occupare direttamente.

Nel frattempo, si avvicinano le elezioni Comunali, che potrebbero appunto spostare l’ago della bilancia politica verso destra, soprattutto a causa delle recenti notizie sul terrorismo; il premier decide quindi di svestire i panni del piccolo democristiano e abbracciare la sua originaria fede politica, proclamando per il 28 gennaio la discussione parlamentare del ddl Cirinnà, che prevede tra gli altri il riconoscimento delle unioni civili e la stepchild adoption, su cui la Chiesa sta conducendo una battaglia discriminatoria.

La stepchild adoption esiste in Italia dal 1983, e permette l’adozione del figlio del coniuge. Prerogativa delle coppie eterosessuali regolarmente sposate, il disegno di legge la estenderebbe anche alle coppie di fatto, etero o meno che siano; si tratta dunque di tramutare un dovere naturale in un diritto, di adeguare la legge ad una situazione già esistente, come ha sostenuto recentemente la presidente della Camera Laura Boldrini:

«Quando muore il partner e il figlio resta solo, il partner ha il dovere di occuparsi del figlio. Mi sembra quasi naturale che questo dovere si traduca in un diritto, perché sarebbe grave il contrario, se il partner si disinteressasse di questo figlio e lo lasciasse al proprio destino. Se è un dovere naturale perché non deve essere anche un diritto?»

Frutto di grande ignoranza risultano quindi tutte le manifestazioni contrarie alla liberalizzazione della pratica dell’ “utero in affitto”, pratica comunque perseguibile penalmente in Italia e permessa invece altrove: il ricorso a una donna che porti in grembo il figlio di una coppia incapace di procreare, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Coloro che si oppongono a ciò sostengono la riduzione della maternità a pura economia – cosa che già accade alla donna lavoratrice, spesso costretta a rinunciarvi in nome della carriera – e svincolano il diritto alla procreazione dal diritto alla libertà cui pure essa appartiene, giungendo a lanciare anatemi e prevedere apocalissi sulla distruzione della società e sul traviamento morale dei minori coinvolti, che invece così continuano a non vedere riconosciuti i loro diritti.

Il popolo, dunque, ha deciso di non stare fermo, ma ha polarizzato lo scontro in due fazioni ben distinte, entrambe chiamate alla manifestazione. La prima, a favore delle unioni civili, ha visto il coinvolgimento di un milione di cittadini lo scorso 23 gennaio, al grido di “svegliati Italia”: alla stessa ora, ognuno ha fatto risuonare in cento diverse piazze nazionali e non l’allarme del proprio telefonino, per sottolinare che “è ora di essere civili”. Il prossimo 30 gennaio, invece, scenderanno in campo a Roma i difensori della famiglia tradizionale che vede, tra i suoi sostenitori più accaniti, l’azienda di trasporti ferroviari ad alta velocità Italo e la Regione Lombardia, che in occasione della prima manifestazione ha chiaramente discriminato parte dei suoi cittadini con l’esposizione della scritta “Family day” sul Pirellone, grattacielo nel cuore di Milano.

Il grattacielo del Pirellone il 22 gennaio scorso | fanpage.it

Il grattacielo del Pirellone il 22 gennaio scorso | fanpage.it

L’assurdità della vicenda intera è che non ci si può chiedere da che parte stare: i diritti reclamati dai primi sono diritti umani che nulla tolgono ai secondi, i quali usufruiscono da soli di quelli che ormai si possono considerare privilegi. Dunque si elimini il perbenismo di facciata, e come dice Claudio Rossi Marcelli dalle pagine dell’Internazionale chiamiamo le cose col loro nome: il movimento del Family day è chiaramente antigay. Mentre le macchiette omosessuali della televisione italiana, impaurite dalla perdita di popolarità, si dichiarano a favore della famiglia tradizionale, il premier lascia ai propri ministri libertà di coscienza sull’adesione a questa o quella fazione: fatto gravissimo, se pensiamo che è compiuto dal segretario di un partito aderente all’ala socialista a livello europeo, e che si richiama all’etica e alla disciplina interne solo per far rispettare il proprio volere contro ogni dissidio intestino. I richiedenti diritto aspettano una legge da ormai più di trent’anni: speriamo che, per dirla alla Renzi, questa sia veramente la volta buona.