Autunno di cambiamenti in Europa e nel mondo. Le elezioni sono alle porte per molti Paesi, e i loro risultati rischiano di minare i delicatissimi equilibri che si sono creati in questo periodo di crisi economica. La Spagna vede a dicembre la possibilità di una nuova sinistra al governo in una nazione martoriata, per quanto il legame al capitalismo e la paura di un cambiamento radicale determineranno per molti la riconferma del partito conservatore; e soprattutto i Paesi in cui si sono appena svolte le tornate elettorali, Argentina, Polonia e Turchia, hanno decretato risultati inaspettati.
Argentina
L’Argentina costituisce un caso particolare. Dopo gli anni della presidenza Menem e della coppia Kirchner-Fernandez, che hanno impostato la loro politica sul modello peronista (legame con gli elementi più tradizionali della nazione, tendenze al fascismo con elementi riformistico-cristiani, culto della personalità, collocazione a sinistra nell’arco costituzionale) e che hanno attraversato momenti di forte crisi economica (due i crack finanziari nel Terzo millennio), ora i candidati presentatisi sono Daniel Scioli, rappresentante del partito uscente, e Mauricio Macri, presidente del centro-destra, che si giocheranno la vittoria al ballottaggio di fine novembre.
Il primo risulta vincitore con due soli punti percentuali in più, ma per vincere avrebbe avuto bisogno di uno stacco del 10%; nel discorso post-elezioni ha affermato di voler essere presidente nel nome di un continuo scontro alle privatizzazioni. Una politica che non piacerebbe in linea teorica agli Stati Uniti, con cui l’Argentina ha sempre però mantenuto relazioni durature e stabili, anche a costo della salvaguardia dei cittadini (si pensi alla dittatura di Videla): segno ormai che i diritti degli umili e dei lavoratori non sono più mantenuti in vita da partiti di base operaia, ma da movimenti di stampo comunque capitalistico.
Polonia
La Polonia in questi anni è stata l’unico Paese che non ha conosciuto nemmeno un trimestre di recessione economica. Complice questo e la posizione geografica, che da sempre ha mantenuto la Polonia in una posizione di periferia rispetto al resto d’Europa e del mercato occidentale, è naturale che le elezioni abbiano decretato per la prima volta l’assenza di un partito di sinistra in Parlamento.
Quello che attira maggiormente l’attenzione dei media è però il fatto che il partito vincitore, Diritto e giustizia, sia antieuropeista. Scenario normale, in un contesto di crisi economica e di conseguente paura popolare; ma infausto, dal momento che la Polonia -contraria ai migranti e secondo alcuni osservatori internazionali anche alla democrazia-, vede di buon occhio l’installazione di alcune basi Nato nel Paese, si pone in netto contrasto all’ingresso nell’euro e soprattutto paventa misure simili a quelle dell’estrema destra ungherese: costruzione di muri anti-immigrazione, potenziamento dell’esercito e -positivo per il popolo, meno per l’occhio austero dell’economia occidentale- la tassazione delle banche e dei grandi patrimoni.
Turchia
La Turchia termina di attraversare in questi mesi un disastro sociale. Con il tentativo di entrare nell’Unione Europea ma con l’ISIS alle porte del Paese, con il governo Erdogan che vuole soffocare i filocurdi, ma soprattutto con le manifestazioni violentemente represse dalla polizia: l’uso dello spray al peperoncino contro persone che richiedevano pacificamente lo stop alla costruzione di un centro commerciale in un parco a Istanbul nel 2013; gli idranti contro il Gay Pride nel giugno 2015; il crollo nella miniera di Soma nel 2014 che ha provocato 282 morti.
Nelle elezioni dello scorso mese il partito uscente era dato per sconfitto; invece il presidente Erdogan ha sbaragliato gli avversari. Non ha conquistato voti sufficienti per modificare la Costituzione da solo, ma abbastanza per governare senza alleati. La ragione pare la centralità del partito Akp nel panorama politico turco: la sinistra favorirebbe troppo la minoranza curda, l’estrema destra non sarebbe vista di buon occhio dall’alleato europeo. La lettura dei disordini di questi anni, di cui Erdogan sarebbe il principale responsabile, è stata da lui sensibilmente ribaltata in maniera da poter promettere, con la eventuale riconferma, il ritorno all’ordine. I turchi, votando in massa (l’89% degli aventi diritto), gli hanno dato fiducia.
Ciò che ha favorito di più l’Akp è stato il ritorno alle urne: solo cinque mesi fa il partito aveva perso la maggioranza, ma non si era trovata una soluzione per una grande coalizione. In questo modo la ”primavera turca” non sorgerà: Erdogan si sente ingabbiato nel suo ruolo di presidente e mira ad ottenere più poteri a livello esecutivo. In questo modo avrà tempo fino al 2019 per raggiungere i suoi obiettivi.