Ridurre in parole i successi di un campione è impresa ardua. Se il il palmares di “Quel” campione è lungo come la lista della spesa dopo un lungo digiuno, allora è impresa quasi impossibile. Se “Quel” campione, tra fioretto e spada, ha vinto la bellezza di 13 medaglie olimpiche (6 ori, 5 argenti e 2 bronzi), 26 medaglie ai campionati del mondo (di cui la metà d’oro) e altre 16 tra universiadi campionati nazionali e giochi del mediterraneo, allora probabilmente non mi crederete. Se mi credete, allora capirete che parliamo di una leggenda e nella leggenda le parole sono una porta verso il mito. In questo caso sull’uscio del mito c’è il nome di Edoardo Mangiarotti.
Sicuramente vale la pena addentrarsi in questo mito. Vale la pena raccontare un personaggio che ha vinto tanto e insegnato tanto, tracciando un sentiero lungo 90 anni da cui prendere ispirazione. Perché le leggende non servono solo a glorificare ma soprattutto ad insegnarci qualcosa e renderci migliori.
Non tutti conoscono questa leggenda. Non tutti sanno chi è Edoardo Mangiarotti e questo forse è uno dei tanti paradossi della cultura sportiva italiana. Si perché, al di là degli eufemismi e statistiche alla mano, “Edo” è l’atleta olimpionico più medagliato d’Italia (record che resiste da ormai 50 anni), nonché quarto atleta olimpionico più medagliato al mondo, dopo il delfino Phelps e due ginnasti dell’allora corazzata sovietica, Larissa Latynina e Nikolai Andrianov.
Questa leggenda però tra i numeri ci sta stretta, perché il valore immenso di questo atleta si chiarifica in racconti che sanno di un’altra epoca. Edoardo era uno che con i suoi fratelli raggiungeva la famiglia in vacanza in bicicletta o di corsa a piedi. E’ vero che la famiglia Mangiarotti era benestante ma l’agio lo si deve conquistare, come ogni vittoria sulla pedana, a colpi di stoccate. E allora giù di corsa, guidati dal immenso padre Giuseppe (capostipite della nuova scuola di scherma italiana), per 36 km da Milano a Besana Brianza. Ad aspettarli la madre Rosetta, donna forte e schermitrice anch’essa. Già, perché nella famiglia Mangiarotti nessuno è esente dalla passione della spada. Come una malattia congenita, una forma genetica di amore verso uno sport unico ed affascinante, insidiatasi nei cromosomi di ogni Mangiarotti.
Edoardo nasce nel 1919 a Renate, secondo di tre fratelli. I tre da subito praticheranno ogni sorta di sport: nuoto, pugilato, ciclismo, corsa. Più gracile dei fratelli, come lui steso raccontava con affondi di ironia, nel pugilato soccombeva tanto al maggiore Dario quanto al più piccolo Mario.
La stoffa del campione però gli viene cucita addosso sin da ragazzo, e gli dona. Il padre vede in lui abilità particolari. E’ l’unico dei figli infatti che viene allenato a tirare anche di sinistro, in onore al mito francese Lucien Gaudin, che più volte il padre Giuseppe aveva sfidato nei Gala di mezza Europa. Questo lo renderà completamente ambidestro e gli darà possibilità molto più ampie oltre a un adattabilità nel combattimento rara negli altri schermitori. A soli diciassette anni viene convocato per la sua prima olimpiade, preferito al “più papabile” fratello maggiore Dario (questo non incrinerà mai il loro unico rapporto). E’ un Olimpiade speciale, è l Olimpiade del 36, quella di Berlino, dell’apoteosi del nazismo e della saga delle svastiche. E’ l’Olimpiade di Hitler ma al termine sarà l’Olimpiade di Jesse Owens. Mangiarotti la vince, ed è solo la prima di una lunga serie. Nedo Nadi, l’allora CT della nazionale, c’aveva visto bene: il ragazzo si farà grande.
Il ragazzo si fa grande e pure in fretta, purtroppo non sulle pedane di scherma ma sotto le bombe della guerra. Quella seconda guerra mondiale che lo sorprenderà istruttore a Malnate. Da lì guiderà i suoi 100 ragazzi a passare il confine con la Svizzera che, almeno per il momento, vuol dire salvezza. Riparo fin quando tutto non finisca. Mangiarotti si arrangia come può. Inizia a vendere pigne ma la scherma è nel suo destino e non lo abbandona. Viene riconosciuto e gli viene offerto di allenare gli atleti locali. Così la guerra finisce ed Edoardo sarà l’ultimo a tornare a casa.
Poi la vita ricomincia, e sarà una carrellata di successi. Si parte da Londra ’48: argento a squadre nella spada e nel fioretto oltre al bronzo individuale nella spada. Poi tocca ad Helsinki ’52, l’Olimpiade dei Mangiarotti. Edo e Dario saranno rispettivamente in oro e argento dopo una finale da destini incrociati, che stabilirà la superiorità della scuola Mangiarotti. Ad Helsinki è anche corrispondente della Gazzetta per la scherma. Il suo pezzo però è in ritardo, il giornale deve chiudere ma Edoardo ancora non arriva. Alla fine, in extremis, troverà un arrabbiato Gianni Brera ad aspettarlo ma sarà subito perdonato, d’altronde era impegnato a vincere un oro. C’era stato anche il Mondiale di Stoccolma nel ’51 dove vinse un altro oro cambiando guardia a gara in corso a causa di una ferita alla mano sinistra. Infine, dopo più di venti anni di Olimpiadi, c’è Roma nel 1960, l’appuntamento più atteso. Come sempre Edo si fa trovare pronto: portabandiera e altro oro a squadre nella spada. Dopo Roma però decide di scendere dalla pedana. Questo non vuol dire abbandonare la scherma. Un amore così grande non si dimentica. Come l’immenso amore per la moglie Camilla, che gli starà tenacemente affianco fino alla fine. E allora via ai lunghi viaggi, accompagnato spesso dalla figlia Carola: inevitabilmente schermitrice, mancina come Edo, due Olimpiadi disputate da giovanissima (Montreal ’76 e Mosca ’80), e un sorriso che disarma come le stoccate del padre. Edoardo seguirà tutte le Olimpiade successive, come punto fermo di un grande tradizione e sostenitore e stimolo per i giovani atleti azzurri. I suoi ragazzi non lo deluderanno. Si inanellano successi grandiosi, vittorie sofferte, altre soddisfazioni e storie di grande passione. Fino al 2008. La Cina attende i nuovi successi italiani ed Edo ci vuole essere, per vedere sventolare l’amato tricolore sopra tutto e tutti anche dall’altra parte del mondo. Così dopo un adenoma intestinale e un ictus, in convalescenza e ancora provato dall’operazione corre ai confini dell’Asia ad esultare un’altra volta, un’ultima volta. Le forze iniziano a mancare (anche gli eroi invecchiano). Ci sarebbe Londra nel 2012, con altri trionfi azzurri da celebrare. Ma questa volte Edo non c’è. O almeno non c’è con il suo sorriso e la sua tenacia a sostenere i ragazzi dalla tribuna. Ma c’è e ci sarà sempre con la sua forza di volontà, con la usa grande esperienza, con la sua immensa eredità. Perché un eroe non è solo una figurina da collezionare. Un eroe deve essere soprattutto una fonte di fiducia e forza per nuovi campioni, dentro e ancor di più fuori le pedane o i palazzetti dello sport. Esattamente come quel ragazzo che correva per andare in vacanza, che fuggiva dalla guerra inventandosi un mestiere, che non aveva paura di sfidare e battere i più grandi ma che non dimentica il rispetto per l’avversario. Proprio come quel ragazzo che non si arrendeva ad un mano rotta. Quel ragazzo che ha sorriso sempre e creduto nello sport fino a 93 anni senza mai invecchiare veramente. Grazie della lezione Edo!