Esistono parole che non possono dirsi, si direbbe. Appunto, si direbbe esistano parole che non possano dirsi ovvero abbiamo parole battezzata come ineffabili per ragioni di varia provenienza. Io sono uno tra coloro che conosce un varietà incommensurabile di combinazioni di segni dal significato ineffabile. La loro indicibilità non deriva, tuttavia, per quanto concerne – si badi bene – i termini a cui sto per riferirmi,  da proprietà formali o da pressioni ed imperativi logici. Appunto, caro lettore, le mie parole sono affatto impronunciabili poiché incomprensibili. Certo, osserverebbe un passante con educata ingerenza, potrei perlomeno applicarmi -chi è costui che osa sostenere il mio sguardo bieco?- e render perspicuo ciò che ritengo essere oramai irrimediabilmente opacizzato, sepolto sotto una rapsodia di edifici intellettuali che dell’elegante fragilità del cristallo altro non conservano che l’associazione concettuale che imparenta nozioni opposte. Insomma nutro seri dubbi intorno all’utilità di declinare ciò che non posso dire in modalità che lo rendano comunicabile. Già immagino il pallore diafano e le gote rubiconde degli astanti, tutti insieme, pavidi, temperati ed furenti inclusi, a disegnare un semicerchio proprio qui, non lontano, intendo qui vicino, nella camera da letto accanto, per esempio. Li immagino sbracati, ammassati l’uno all’altro, superfici, esistenze a due dimensioni. Sono qui che penso a quel sudiciume antropomorfo affaccendato, insonne, calcolare, progettare, costruire, rimpolpare, curare il proprio capitale mentre io, accigliato, dico ciò che non può esser enunciato. Le mie parole posseggono la fresca curiosità infantile, di quel genere che tende a sprofondare, ad indagare e, signori miei, a resistere alla tentazione – e quanto è forte in età adulta – di coordinarsi a ciò che quei devoti capitalisti considerano il bene. Sono un miscredente, ateo vagabondo del sottosuolo che smaschera la propria natura davanti a un gruppo di astanti ormai dimentichi della mia presenza. Nessuna allocuzione mi viene in aiuto, nessuna perifrasi strozza la loro brama costruttivista ed ora, ora che ho concluso di non poter dire ciò che è ineffabile nel tecnomondo, adesso che i sensi di chi desidero passeggi con me presso le fondamenta sono rivolti altrove, ora che sono finalmente ancora solo, posso proseguire ad immaginare di non poter, ahimè, condividere figurativamente l’immagine di tanto sudiciume borghese.