Migrare è costitutivo della specie umana ed oggi più che mai si parla di migrazioni, ma non di quella legata ai cambiamenti climatici che, secondo gli ultimi dati del World Disasters Report 2014 (redatto dalla Federazione Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna rossa), aumenterà vertiginosamente nei prossimi cinque anni specialmente nei Paesi più poveri dei contenenti africano ed asiatico.

Il legame tra cambiamento climatico e migrazione è estremamente complesso tanto che la Direzione generale Ambiente della Commissione Europea ha ben pensato di lanciare il progetto Science for Environment Policy utile a diffondere aggiornamenti circa le cause ambientali delle recenti ondate migratorie e le politiche di sostenibilità che l’Europa dovrebbe promuovere.

Pellegrinaggio

HUMBLETREE| pilgrims

Purtroppo, questa realtà sempre più pressante sfugge ad una definizione precisa tanto che le Nazioni Unite non riescono ancora a garantire a chi è costretto a migrare una tutela a livello internazionale.

Il punto nevralgico è costituito dalla difficoltà di discernere tra causa climatica e fenomeno migratorio e di attribuire la responsabilità di entrambi i fattori agli Stati. Riconoscimenti, questi, difficili da operare a causa di calamità naturali, carestie, conflitti interni e vulnerabilità di determinate popolazioni.

Sin dal patto firmato in seno alla conferenza della Comunità internazionale 2011, a proposito di accoglienza degli eco-profughi, la promessa di offrire loro protezione giuridica ed assistenza sociale è rimasta sulla carta; troppo arduo integrare una tale emergenza, che richiede consistente dispiego di risorse economiche, nella fitta agenda internazionale.

Inoltre, dal nostro punto di vista di europei l’enorme flusso migratorio pare essere una massa omogenea ed informe di un profughi esasperati dalla povertà da cui provengono. Ed invece, nel grande «mare» di migranti che si spostano in cerca di una nuova casa, ve ne sono migliaia cacciati via dalla propria terra, un luogo che, causa eventi climatici estremi, non offre più né cibo né riparo.

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Balazs Gardi| climate refugee

Secondo UNHCR (United Nations High Comision for Refugees) gli eco-profughi sono circa il 10/15% di tutti i rifugiati e provengono dalle zone sud-sahariane e da Somalia, Eritrea e Libia. Per lo più tutti teatri dell’imperituro conflitto arabo-palestinese, questi Paesi patiscono la guerra senza scrupoli per le risorse petrolifere che fanno gola all’Occidente.

Eppure, nonostante l’espressione «profughi/rifugiati climatici» sia ormai molto usata, difficilmente si concede loro lo statuto. A tal riguardo, si stima che eventi meteorologici estremi ed il controllo dei depositi dell’acqua saranno le principali cause di spostamento di circa 200 milioni di individui.

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Itzafine Day| climate change

L’organizzazione IOM (International Organization for Migration) calcola che ad oggi gli eco-migranti corrisponderebbero a 50 milioni; un numero così corposo sarebbe dovuto, per ordine, a: inquinamento, desertificazione, terremoti e siccità, uno concausa dell’altra. In tutto, dal 2008 al 2014 , oltre 157 milioni di profughi sono stati costretti ad abbandonare le proprie terre per sempre.

Il sopracitato IOM tratteggia infine lo scenario più estremo, ossia quello in cui siamo tutti potenziali rifugiati climatici in balia di una sorte quasi incontrollabile. Il «quasi» è d’obbligo visto che noi abbiamo l’obbligo, non morale ma intellettuale, di migliorare la vita di questo universo: dobbiamo agire perché ogni Nazione investa in materia di sostenibilità e comunicazione ambientale. Lo dobbiamo alle generazione future, lo dobbiamo a noi.