Tra qualche mese negli Stati Uniti si svolgeranno le elezioni. Uno dei candidati, Donald Trump, ha candidamente ammesso che, nel caso di una sua vittoria, “gli immigrati provenienti dalla Siria se ne ritorneranno a casa loro”. Premesso che nella maggior parte dei casi non c’è nessuna casa rimasta ad aspettarli, queste dichiarazioni hanno il sapore dell’ignoranza. E’ ormai lapalissiano che le guerre in Medioriente e i disordini che hanno portato tra le altre cose alla nascita del fenomeno dello Stato Islamico sono stati provocati proprio dalla sete di potere degli USA, che non si fermano davanti a nulla nel momento di una possibile conquista. Il loro alleato più fidato in quei territori è l’Arabia Saudita, che a livello di diritti umani si colloca agli ultimi posti nelle classifiche internazionali; e porta la loro firma l’attacco aereo che ha distrutto un ospedale civile in Afghanistan il 3 ottobre 2015.
L’odio per il diverso, potenziale pericolo per i valori costituenti una società e dunque vittima di stigma sociale, affonda negli Stati Uniti radici particolarmente profonde. Se fino alla metà del XX secolo il razzismo imperversava sul territorio americano, non ci si deve stupire se oggi la polizia commette azioni criminali verso civili disarmati e innocenti, colpevoli solo di possedere un colore della pelle più scuro. In realtà, le violenze riguardano tutta quella fascia di popolazione appartenente alle cosiddette minoranze: neri sì, ma anche ispanici, disabili mentali, tutti inermi e manganellati senza pietà, fino ai casi estremi di omicidio ingiustificato (la lista degli ultimi delitti è presente sul Corriere della Sera online).
Il fenomeno, che conosce dunque origini remote, è esploso veementemente quest’anno quando a Baltimora un giovane afroamericano, Freddie Gray, è morto nella cella di un carcere. I casi italiani simili sono purtroppo molteplici, a partire dalla morte di Stefano Cucchi, ma la partecipazione popolare in Italia resta appannaggio della diffusione mediatica, che è connessa al mondo politico e ha dunque tutto l’interesse di affossare certe questioni. Negli USA invece la risonanza mediatica non si è fatta attendere: in tutte le più importanti città sono state organizzate manifestazioni contro la polizia, che spesso sono degenerate in violenti scontri.
A seguito del caso di Baltimora, però, vi sono state altre violenze efferate: la morte di un quindicenne afroamericano a Indianapolis, quella di un diciottenne a Ferguson e di ben tre venticinquenni a St. Louis, tutte dovute a motivi documentati ma futili: il furto di una scatola di sigari, il tentativo di rubare un’auto, la mancanza del rispetto di un alt intimato dalla polizia stradale. E se c’è chi giustifica l’operato della polizia, l’amministrazione Obama -presidente ironicamente afroamericano- invoca la smilitarizzazione.
Ci siamo resi conto che una polizia militarizzata appare alla gente come una forza d’occupazione, estranea alla comunità: è una presenza che intimidisce e aliena le simpatie, manda un messaggio sbagliato.
Barack Obama, presidente USA
Sono dunque da condannare le politiche che inneggiano al ritorno a un passato di violenza e di baratto tra libertà e sicurezza, come quelle volute dal leghista Gianluca Buonanno che qualche giorno fa è apparso in televisione dotato di pistola. Se l’educazione e gli insegnamenti che la classe governativa vuole impartire alla popolazione, bambini in primis, riguardano questo tipo di comportamenti che relegano la corretta istruzione a un mondo fantastico e inesistente, il mondo che ne scaturirà non potrà che essere un mondo di paura e di terrore, fatto da singole unità impermeabili che andranno dunque ad estinguersi, sullo sfondo di un sistema in cui social network, voli low cost e libero scambio di opinioni rendono sempre più insignificanti le frontiere, geografiche e culturali.