E così è successo. La Gran Bretagna, con il 51.9% dei voti, ha deciso di lasciare l’Unione Europea con il referendum del 23 giugno, creando così un precedente pericolosissimo per il mantenimento degli equilibri internazionali.
Il primo dato che colpisce è il rapporto tra voti ed età dei votanti. Sono stati infatti gli over 60 i maggiori sostenitori del Leave, a fronte di moltissima parte dei giovani favorevole al Remain, e che ora invece si ritroverà esclusa da un’Europa acciaccata ma pur sempre unita. Voto miope, considerando che una delle conseguenze sarà proprio la modifica alle pensioni dovuta al deprezzamento della sterlina.
E proprio l’economia torna al centro della discussione. Lungi dal credere che il voto inglese sia stato un monito contro una unione monetaria che già Margaret Thatcher definiva “weak”, debole, il Paese – primo sostenitore europeo della globalizzazione e del capitalismo occidentale – si ritroverà ora a sobbarcarsi tra mille difficoltà dovute all’isolamento che il voto comporta.
Prima fra tutte, la libera circolazione, che ostacolerà gli spostamenti degli inglesi su suolo europeo; la riduzione del potere d’acquisto causata dal crollo della moneta; la delocalizzazione di numerosi posti di lavoro, punto sul quale invece hanno tanto insistito i sostenitori dell’uscita dall’UE, che puntavano il dito contro la massiccia migrazione nel Paese; la copertura sanitaria dei cittadini inglesi residenti in Europa, numerosissimi – specialmente a Gibilterra, che ora rischia di rimanere isolata dalla Spagna e dall’Europa tutta; e quelle problematiche regolamentate ormai da norme sovranazionali.
Anche la geografia potrebbe risentire del referendum inglese: la Scozia, già interessata da una voto per l’autodeterminazione e ora principale sostenitrice del Remain, vorrebbe richiedere la separazione dal Regno Unito per restare in Europa; e l’Irlanda del Nord, altro territorio a minoranza euroscettica, sta meditando l’unificazione alla Repubblica d’Irlanda, prima che le frontiere vengano definitivamente chiuse.
Ovviamente lo sciacallaggio politico non si è fatto attendere: in un momento luttuoso per l’Europa e per il futuro di tanti giovani, inglesi e non, i politici nazionalisti di tutto il mondo hanno deciso di cavalcare l’onda emotiva per sostenere le proprie ragioni. Marine Le Pen grida al Frexit, mentre Salvini e la sua Lega Nord, ormai svincolata dall’originaria richiesta di indipendenza della Padania (o no?), si unisce al Movimento Cinque Stelle per indire un simile referendum anche in Italia. Petizione non solo incostituzionale, ma pure populista: in contraddizione col comportamento di chi lancia anatemi contro il continente ma ogni mese incassa lo stipendio da europarlamentare.
La democrazia senza informazione è il vero pericolo alla libertà: chi ha votato per la Brexit – e chi ha permesso il referendum, quello stesso premier inglese che ora annuncia le dimissioni – probabilmente non ha riflettuto su tutto questo, né sulle premesse traballanti di chi promette fumo spacciandolo per arrosto. E’ pur vero che in questo modo si deve ripensare a un’Europa che negli ultimi dieci anni è divenuta baluardo della burocrazia e ha posto – e continua a porre: vedasi la questione migranti – il capitale sopra i cittadini. Ma è altresì vero che la soluzione risiede in una maggiore partecipazione attiva alla vita comunitaria, e non nella fuga dai problemi della medesima comunità.
Tutto ciò, infine, potrebbe avere ripercussioni ben più gravi, se si pensa alla possibile presidenza Trump negli Stati Uniti e al tramonto definitivo di qualunque ideale democratico e civile. Chi non ricorda la storia è destinato a ripeterla, e la chiusura delle frontiere in senso autarchico ci riporta a un passato, nemmeno tanto remoto, da cui l’Europa pensava di essersi allontanata. Ma forse era troppo presto per crederci davvero.