Manca poco più di un mese ed il MIUR pubblicherà il tanto atteso e discusso bando di concorso a cattedre che mira ad assumere circa 90 mila docenti per la scuola pubblica. L’obiettivo di immettere in ruolo migliaia di docenti precari è lodevole ma costa la partecipazione di altrettanti laureati a cui è peraltro preclusa la legittima possibilità di abilitarsi

Citando la fonte principale- e quindi più attendibile- dell’ Urp del MIUR, per diventare docenti è necessario:

  1. Essere in possesso di una laurea vecchio ordinamento ovvero specialistica/magistrale oppure di un diploma specifico per l’insegnamento nella scuola primaria;
  2. Essere in possesso del regolare titolo di abilitazione

In mancanza del secondo punto l’opportunità di insegnare è stata data anche agli inclusi nelle graduatorie d’istituto di III fascia che sono utilizzate dalle scuole per le supplenze dei docenti assenti. Ma anche quest’ultimo barlume di speranza, su cui i laureati contavano per maturare esperienza sul campo e per capire se quella fosse la vocazione giusta, è svanita.

Governi e ministri dell’Istruzione si sono avvicendati ed ogni tentativo di portare stabilità e snellire le pastoie burocratiche ha quasi sortito l’effetto contrario. Più precisamente, negli anni le modalità attraverso cui diventare docente sono mutate e si è passati dalla SSISS (Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario) alle graduatorie fino al TFA (Tirocinio Formativo Attivo), senza che l’aspirante insegnante avesse mai la sicurezza di investire le proprie risorse in un percorso davvero spendibile.

Recentemente, purtroppo, la situazione è precipitata tanto che tutti coloro che non hanno potuto accedere al TFA per meri motivi di tempistica saranno esclusi dal «concorsone» sopracitato a cui invece parteciperanno:

  • i laureati prima del 2001/2002
  • i vincitori del concorso 2012
  • gli abilitati al 1° ed al 2° ciclo TFA

Bisogna precisare che il TFA è un corso post-laurea a cui si accede superando test preselettivi e pagando laute somme di denaro in forma di tasse alle università che lo istituiscono. A ciò si aggiunge l’ambigua autodeterminazione dei crediti curriculari che ogni Ateneo propone agli studenti che vogliono insegnare materie afferenti ad una data classe di concorso.

Capita spesso, inoltre, che le discipline e i rispettivi CFU richiesti per accedere al TFA non compaiano nel piano di studi perché così possano essere «acquistate» come crediti extracurriculari. In tal caso il rischio è quello di confondere- se non di barattare- studio e passione con numeri e speculazioni.

Il punto è che negli anni si è creata una grande confusione di caratteristiche, percorsi formativi ed esperienze differenti che non permette di parlare di equità tra chi concorre alla docenza e chi già la professa. Tutto ciò insieme alla discontinuità con cui sono banditi i percorsi abilitanti perpetua un’incomprensibile disparità di trattamento tra candidati e genera pericolosi distinguo tra laureati di serie A e laureati di serie B.

L’ingiustizia si palesa oltremodo nel confronto tra candidati in possesso di diploma e plurilaureati che sperano di non invecchiare aspettando che i tempi si facciano maturi perché la legislazione cambi. Eppure quella scolastica ed i canali di reclutamento sono soggetti a continui cambiamenti per cui occorre essere costantemente aggiornati. Con la speranza che il desiderio di insegnare non rimanga tale.

Tutti questi dati non possono non far riflettere sull’instabilità politica e lavorativa in cui versa l’Italia, anzi dovrebbero allarmare e suscitare vigorose prese d’atto e reazioni. D’altronde la scuola potrebbe rappresentare la prima e più efficiente arma di politica strutturale capace di fronteggiare l’urgenza della disoccupazione giovanile e di offrire risposte lungimiranti.