Il presente momento storico è contrassegnato da due fenomeni pervasivi che incidono sulla vita di tutti, ovvero la globalizzazione e l’immigrazione. Entrambi presuppongono una progressiva interconnessione di luoghi e persone; tuttavia, contro ogni previsione, non figurano come strumento di comprensione dell’identità e di coesione con l’alterità.

Al contrario, la comunicazione con l’alterità risulta sempre più compromessa dalla rappresentazione stereotipata ed allarmante che istituzioni e mass media restituiscono dei migranti, provenienti in larga parte dai Paesi islamici. I recenti attacchi terroristici sollevano l’attenzione sul tema dell’immigrazione e del confronto con l’Islam soprattutto negli Stati dove è grande la concentrazione dei suoi fedeli.

Sale il livello d’allerta insieme agli imponenti sforzi nel vigilare obiettivi ‘sensibili’ in tutta Europa. Analogamente si susseguono disparate prese di posizione da parte delle istituzioni politiche e dei suoi esponenti. Tra questi c’è chi respinge ogni tipo di concessione agli arabi-musulmani in materia di immigrazione e di libertà di culto religioso; c’è, poi, chi marchia tali dichiarazioni a espediente volto ad accostare l’Islam al terrorismo tout court.

L’Italia è oggi considerata possibile avamposto tattico dell’ «autunno arabo», ‘clima’ che secondo molti è favorito dalla ‘corrente’ politica dell’accoglienza. Si conceda il gioco di parole perché esso non è casuale ma dimostra, anzi, che il terrorismo è diventato problema sociale, tendenza da cavalcare per rinsaldare schieramenti ideologici che non fossero già politici.

L’attentato alla redazione parigina di Chiarlie Hebdo è l’esempio più recente e clamoroso di quanto il linguaggio e lo stile della comunicazione possano inficiare o garantire, a seconda degli orientamenti ideologico-politici, il progetto di integrazione tra gruppi di matrice culturale diversi. Detto evento mostra anche come le visioni del mondo siano divergenti e come la pace passi attraverso il rispetto per queste ultime.

Esso, inoltre, espone un dato di fatto: un determinato segno culturale può diventare strumento di mortificazione dei segni in cui si identifica, imprescindibilmente, un altro gruppo. Lungi dal configurare una mera guerra di segni, quanto accade dimostra che l’identità- stratificandosi in gesti, simboli e pratiche culturali- è infelicemente ridotta a matrici etniche, religiose e linguistiche.

Caria| Satira islamica

Caria| Satira islamica

 

L’attacco alla satira fa riflettere sulle differenze culturali e religiose tra popoli come il rispetto musulmano dell’iconografia sacra. Tale querelle cede il passo a due visioni di «cultura»: quella di chi pone le culture come realtà parallele ed assimilabili e quella di chi ritiene le culture incomunicabili poiché una esclude l’altra. Risulta, dunque, che laddove i simboli hanno un peso preponderante e rendono instabile le relazioni interculturali, solo il rispetto per l’altrui libertà– che si declina in diverse modalità di espressione- riesce a controbilanciare il sempre precario equilibrio.

Inoltre, chi lancia campagne contro gli arabi-musulmani dimentica spesso il rischio di iniziare una crociata in vecchio stile contro le differenze di culto che cresce di pari passo con l’aumento dell’immigrazione. Peraltro, ciò rende l’universalismo dei diritti della persona- simbolo dell’Occidente democratico- parossistico e contraddittorio.

Diventa perciò arduo stabilire quale sia il ruolo della satira nell’epoca della logica dicotomica: per esempio, la libertà- così com’è intesa dall’Occidente- non ha uguale corrispettivo in Oriente. Il  paradosso si trasforma in beffardo dilemma; per superarlo occorre abbandonare la logica binaria che, cieca, corre sulle opposizioni e assumere che i due poli ‘noi’ – ‘loro’ non alludano alle rispettive connotazioni ‘positivo’ – ‘negativo’. Essi sono infatti complementari ed interdipendenti.

La satira è usata per sconcertare, sovvertire ed è segno di civiltà solo se, contravvenendo a buon gusto, retorica e perbenismo, non eccede la misura e non sconfina nel campo di libertà altrui. In tal caso rappresenterebbe un ennesimo atto di forza e di violenza su credenze altrui di cui nessuno ha il polso.

La contromisura più opportuna a questa folle guerra è la resa alla perentoria affermazione della propria cultura in un mondo fortunatamente molto vario. Allora, forse, si apprenderà la pratica interculturale che consiste nel pensare alla propria (e quindi all’altrui) identità come a qualcosa di cangiante e alla libertà (finalmente) come valore inalienabile?